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On vient tous d'ailleurs: il lavoro psicologico clinico con le migrazioni

09 Luglio 2015
Pubblicato in Etnopsichiatria Etichettato sotto

La prima parola che viene in mente trattando un tema arduo come il lavoro psicologico e terapeutico con le migrazioni è senz'altro "sfida". Come definire altrimenti un lavoro che è allo stesso tempo scontro ed incontro, e che negli ultimi anni mobilita gran parte dell'immaginario collettivo e cross-mediale dell'informazione pubblica e privata?

Mi piacerebbe parlare dello scontro, prima di tutto.
Se si adotta il termine "cultura" per designare una dimensione collettiva in cui convergono lingue, religioni, miti, ma anche oggetti, artefatti, strategie di sopravvivenza e modi di produzione propri di un determinato gruppo in una determinata fase della sua storia ed in relazione con uno specifico ambiente; si comprende come necessariamente da luoghi diversi originano "culture" diverse, visione del/sul mondo diverse. Ognuna ha dunque una sua dignità ad esistere, riprodursi e perchè no, modificarsi. Fino a qui tutto bene, tutto chiaro, ma che succede quando la modernità permette spostamenti (fisici o virtuali che siano) per enormi spazi in rapidi tempi? Attenendosi all'idea di "cultura" come descritta sopra, non è pensabile che si possa verificare il paradosso di essere nel medesimo luogo con due culture diverse o che due culture diverse possano coesistere nel medesimo luogo. Come se due imbarcazioni navigassero verso la medesima boa, e allora lo scontro diventerebbe inevitabile!

La parola scontro, quando si parla di immigrazione o più in generale di comportamenti umani, evoca immediatamente scenari di conflitti, guerre, violenze, prevaricazioni e chi più ne ha più ne metta. Sono immagini che, sicuramente, allo psicologo clinico che lavora con lo straniero non appaiono affatto come estranee o aliene; il più delle volte sono immagini che rappresentano il pane quotidiano della prima accoglienza psicologica. Non si vuole quindi, con questo scritto, sminuire le criticità e le difficoltà insite nel concetto di scontro; si vuole invece recuperare il potere strutturante del conflitto. Si pensi ad un esempio: alcuni studi sulle vittime di tortura ci descrivono come il seviziato diventi pian piano una massa informe di umanità, desiderosa di riversarsi nella prima forma possibile che possa contenerla e ridarle forma...molto spesso è il boia! Ecco che l'aggressore viene interiorizzato, vittima e carnefice allo stesso tempo. Il lavoro terapeutico non potrà a questo punto prescindere dal dare valore alla "sana collera" del paziente che prefigura l'espulsione dell'alterità negativa; solo così il conflitto potrà diventare strutturante e ridare vitalità, autenticità, nuova linfa vitale.
Nel caso di torture e violenze si naviga certamente in acque profonde e perigliose, ma anche in condizioni di mare sereno le cose non sono poi tanto diverse. Nella relazione con lo straniero, di qualsiasi tipo di relazione si tratti, quello che non è definibile spaventa e la non-definizione crea odio; è probabilmente l'angoscia ancestrale più profonda quella di non sentire di avere una forma, non poter essere definibili. La difficoltà nel "modellizzare" l'altro significa essere messi faccia a faccia con la difficoltà a modellizzare sè stessi, a definire sè stessi. Lo scontro con l'alterità è in questo senso scontro con sè stessi, rappresenta lo scontro di una società chiamata a sforzarsi a non aver bisogno di "definire". Tornando all'immagine citata prima, e cioè alle due imbarcazioni proiettate verso la medesima boa, si può immaginare una narrazione di questo tipo: due società, due culture che non hanno bisogno di definirsi, che riescono a pensarsi continuamente in maniera creativa sono due imbarcazioni capaci di smontarsi e rimontarsi continuamente durante la navigazione. Sono imbarcazioni abili sempre, metro dopo metro, a restare a galla cambiando la disposizione dei propri pezzi e capaci entrambe d'immaginare che alla boa dovranno integrarsi in una nuova forma, in una nuova barca, capace essa stessa di rimanere ancora a galla e tenere ancora il mare. E nessun pezzo è superfluo, e nessuna storia o nessun vissuto possono essere messi da parte. Sono due imbarcazioni che hanno comunicato e immaginato insieme il futuro. Sono due imbarcazioni capaci di tradurre (dal latino trans-ducere, "far passare da un luogo all'altro").
Ma cosa succede arrivati alla boa?
L'incontro ha generato una nuova imbarcazione: essa è più grande, più complessa, ha una forma che ricorda le due precedenti ma che non è uguale a nessuna di quelle.
Non può esistere infatti il paradosso di essere nel medesimo luogo con due culture diverse: nello stesso istante in cui si intuisce l'esistenza dello straniero, del migrante o dell'altro più in generale la propria visione del/sul mondo cambia, i pezzi cambiano disposizione, l'energia scorre e si è un passetto più avanti all'incontro con l'altro, a completarsi. Alla boa, nel luogo d'incontro la cultura sarà più grande, più complessa e pronta per navigare verso un nuovo orizzonte.
Nel lavoro con il migrante non si è sempre disarmati o senza attrezzi e lo scontro non è mai solo distruzione inesorabile: i mediatori culturali possono operare in maniera incantevole traducendo (o meglio trans-ducendo per ricollegarsi all'etimologia illustrata prima), l'etnopsicoterapia contemporanea permette orizzonti di terapie non più unicamente occidentalocentriche (e qui si aprirebbe una questione grande che riguarda l'assoluta inutilità, a parer mio, dei manuali diagnostici nell'incontro psicologico con persone provenienti da altri contesti), l'antropologia fornisce mirabili esempi di come possano essere discutibili e fuorvianti categorie come giusto/sbagliato - normale/anormale etc. etc. Non si deve dimenticare, inoltre, come gli esseri umani posseggano ancestrali e funzionalissimi dispositivi di socializzazione tarabili continuamente ed automaticamente: si pensi ad uno splendido, caloroso e sincero sorriso!
Scontro ed incontro, quindi, rappresentano due facce della stessa medaglia, esattamente come smontare e ricreare continuamente utilizzando la stessa argilla. L'immagine artigiana e creativa che questo scenario comporta, evoca nitidamente la dimensione dell'"impegno" pensabile come: introspezione, fiducia in se stessi e nell'altro, fiducia nel cambiamento, sguardo verso il futuro, critica, creatività, fine ma insieme rinascita, dolore ma insieme bellezza...
Insomma...vita!